A cosa servono gli attacchi di panico? parte 1
- Rosa Paola Carfora
- 27 mag 2021
- Tempo di lettura: 6 min
Aggiornamento: 4 set 2022
Chi soffre o ha sofferto, di attacchi di panico, sa bene quanto questi siano invalidanti e difficili da gestire, sia sul piano corporeo che su quello psico-emotivo.
Nonostante ciò, però, è giusto ricordare che sono anche messaggeri di una importante lezione di vita.
In questo post vi presenterò un caso, cercando di spiegare a grandi linee, quei processi profondi li possono scatenare.

Indice
COMINCIAMO!
Il panico non è un virus che viene da fuori, ma un prodotto del mondo interiore che ha la funzione positiva, di dare spazio alla spontaneità.
Il linguaggio del panico è difficile da comprendere, in quanto si manifesta in modo simbolico. Interpretarlo è come imparare a leggere una lingua antica e lontana come quella dei geroglifici.
Ciò che vuole dirci è che dentro di noi si cela un volto sommerso, invisibile, a cui è necessario dare spazio, se si vuol guarire.
Nella maggior parte dei casi si tratta di emozioni che a un certo punto dell’esistenza, sono state erroneamente giudicate negative o sbagliate, come: rabbia, dolore, tristezza, odio, collera ecc..
Al fine di una guarigione sarà necessario accogliere queste emozioni e dare loro spazio, senza timore, in quanto la loro esistenza, non pregiudica i nostri pregi e le virtù, ma anzi, ci rende consapevoli.
SIETE PRONTI A SCOPRIRE LA VOSTRA VERA NATURA?
Per spiegarvi al meglio l’utilità degli attacchi di panico, descriverò, l’esperienza di un caso a me noto, come esempio di caso clinico.
Parliamo di una ragazza e delle vicende a lei accadute. Per comodità la chiamerò Bea.
Nel periodo precedente al primo attacco (aprile 2004), Bea, ha vissuto un’esperienza per lei traumatica. Aveva 20 anni compiuti da poco.
Così, a causa dello shock, non visse con gioia la giovinezza dei 20 anni, divertendosi e costruendo il suo futuro. Si trovò invece, improvvisamente, alle prese con gli attacchi di panico.
NON E IL SINGOLO TRAUMA A SCATENARE IL PROCESSO Per spiegarvi al meglio l’utilità degli attacchi di panico, descriverò, l’esperienza di un caso a me noto, come esempio di caso clinico.
Parliamo di una ragazza e delle vicende a lei accadute. Per comodità la chiamerò Bea.
Nel periodo precedente al primo attacco (aprile 2004), Bea, ha vissuto un’esperienza per lei traumatica. Aveva 20 anni compiuti da poco.
Così, a causa dello shock, non visse con gioia la giovinezza dei 20 anni, divertendosi e costruendo il suo futuro. Si trovò invece, improvvisamente, alle prese con gli attacchi di panico.
NON E IL SINGOLO TRAUMA A SCATENARE IL PROCESSO
Non possiamo attribuire, solo a quel singolo evento traumatico, la causa del suo panico, ma è necessario capire anche il vissuto emotivo di Bea negli anni precedenti.
Infatti, a causa di burrascose e pesanti vicissitudini, già da bambina, Bea, si sentiva diversa dai suoi coetanei. Vedeva nella maggior parte di loro serenità, mentre lei si sentiva molto spesso tormentata e triste.
Quando poi Bea aveva 13 anni (suo fratello ne aveva 7 e sua sorella 5), successe che il padre, se ne andò (definitivamente) via e smise anche di provvedere a moglie e figli, sia sotto l’aspetto pratico ed economico, sia da un punto di vista umano. Disinteressandosi progressivamente fino a una totale sparizione, nemmeno una telefonata a Natale.
La madre, che da sempre era soggetta a crisi di ansia e depressione, in quegli anni peggiorò notevolmente e di conseguenza anche l’ adolescenza di Bea fu scandita, da frustrazione e solitudine.
Infatti, mentre le sue e amiche potevano andare in vacanza e uscire, Bea era costretta a stare in casa, passando le giornate a badare i fratelli minori e sua nonna costretta a letto da un ictus. Non era certo una situazione ideale per il suo sviluppo. gli adolescenti hanno bisogno di una guida per imparare a farsi strada nel mondo, mentre Bea era caricata dalla responsabilità di dover accudire altri individui senza averne le risorse fisiche, emotive e psicologiche.
In una situazione simile, la personalità ha bisogno di proteggersi da una realtà avversa, così si tutela creando una realtà soggettiva e così Bea, senza rendersene conto, e per riuscire a stare situazione senza avere la sensazione di subirla ( preservando così il suo equilibrio psicologico), si era auto-convinta che fosse tutto normale e si auto-incaricò (sempre inconsciamente), del loro benessere e della felicità del suo nucleo famigliare.
Grazie a quella sorta di dissociazione che l’aveva indotta all’auto inganno, riusciva sempre a trovare entusiasmo e stimoli, nonostante nella sua casa aleggiasse spesso l’aura pesante della madre, fatta di un vittimismo e pessimismo capace di uccidere ogni suo slancio.
Gli anni passavano e Bea conquistava con l’età, maggiore autonomia e libertà, ma il ruolo che ormai si era auto assegnata, era una perenne palla al piede a cui si era abituata a non fare più tanto caso.
Arrivò anzi, al punto di esserne fiera e a sentirsi superiore, perchè a differenza della maggior parte dei suoi coetanei, lei era diventata abile a gestire da sola molte cose e non se ne lamentava mai. Anzi, nascondeva la sua situazione a tutti i suoi amici, per non apparire troppo sfigata.
Sapeva di essere responsabile e sapeva fare sacrifici. Era una colonna portante della sua famiglia, senza di lei, credeva, che ci sarebbero state molte più difficoltà.
Il pensiero che sua madre non si preoccupasse del peso che le aveva scaricato sulle spalle, non la sfiorava, le sembrava normale che nessuno si domandasse come lei vivesse quelle responsabilità e quei limiti.
Nello stesso tempo, però, covava intimamente il desiderio di essere libera, di potersi permettere di andare via di casa, di viaggiare o di vivere in una grande città.
Frequentava amici poco più grandi di lei che facevano normalmente quel genere di cose e li adorava perché erano stimolanti e allegri. In realtà sperava di esserne contagiata e che osmosi, fosse riuscita un giorno a essere come loro, spensierata.
Però, la maggior parte delle volte, li guardava divertirsi, ma raramente riusciva a sua volta lasciarsi andare quanto loro: era sempre vigile e controllata, stava alla larga da stupefacenti e non toccava alcolici.
LA RABBIA
A volte fantasticava sulle cose che avrebbe potuto fare se solo fosse nata in una famiglia “normale”, dopo di ché provava una profonda rabbia verso i suoi genitori che invece di proteggerla e rassicurarla, invece di spianarle la strada e di condurla per mano nella vita adulta, per tutta la vita, l’avevano esposta a dolore e difficoltà.
La rabbia è un’emozione che in questa vicenda ha una grande rilevanza.
Va sottolineato, infatti, che seppure Bea arrivava a sentire l’ingiustizia della situazione in cui si trovava, e di conseguenza provava rabbia; ogni volta che provava a esternare questo stato d’animo con sua madre, veniva pesantemente biasimata e rifiutata.
Sulla carta per Bea c’era solo sua madre come punto di riferimento, ma non poteva trovare in lei nessuna accoglienza e nessuna consolazione.
Andava tutto bene finché Bea, soddisfava le aspettative e le richieste della madre, ma se osava esternare frustrazione, se osava lamentarsi, arrabbiarsi, o addirttura se osava mostrarsi triste, veniva pesantemente attaccata.
In quelle occasioni sua madre cercava di farla sentire in colpa e le veniva rinfacciato il vitto e l’alloggio, come se fosse un ospite. Inoltre veniva da lei insultata ed etichettata come ingrata, menefreghista e stronza: “Sei come tuo padre” le diceva, “Sei un egoista, ti importa solo di te stessa”.
La rabbia è un’emozione spontanea e positiva. Serve a ripristrinare l’equilibrio e i confini di un individuo quando questo subisce un’attacco alla sua integrità.
Provate a immaginare di trattenere tra le vostre braccia un gatto contro la sua volontà:
istintivamente avrà una reazione rabbiosa, che lo indurrà ad aggredirvi per ristabilire la sua integrità, ovvero per liberarsi da una costrizione per lui innaturale.
Chi giudicherebbe quel gatto come “cattivo”?
Chi oserebbe punire il gatto per aver semplicemente espresso la sua natura istintiva?
Cosa comporta allora, per un individuo, dover sopprimere quest’istinto e arrendersi al fatto di non poter ristabilire la sua integrità?
ANDIAMO AVANTI CON GLI EVENTI
La routine di Bea si interruppe improvvisamente il 16 agosto 2003, quando sua zia parlando del più e del meno, le comunicò che, entro pochi mesi, sua madre sarebbe andata via, lasciando la loro casa, il lavoro e la stessa Bea.
Aveva deciso di trasferirsi, col suo nuovo fidanzato (conosciuto 3 mesi prima), a 200km di distanza, sulla cima di un monte desolato, portando con se solo i figli minorenni.
In quella situazione a Bea non rimase altro che mi sentirsi profondamente tradita oltre che obsoleta come un fazzoletto usato.
Mamma e fratelli, se ne andarono il 1 marzo 2004 e, inevitabilmente, crollarono tutti i falsi equilibri di Bea
L’angoscia, la rabbia, la tristezza, la frustrazione, l’abbandono, l’infinita sconsolatezza, l’afflizione, l’amarezza, esplosero tutte contemporaneamente.
Fu per Bea una deflagrazione che accompagnò tutti i suoi giorni, insieme a pianti infiniti…. Finché un giorno arrivò…..
L'ATTACCO DI PANICO!
Confuse quel primo episodio con un problema fisico, non sapeva esattamente cosa, ma pensò a un attacco di cuore, o un problema di pressione, o un ictus e in generale, temeva di essere in GRAVE PERICOLO DI VITA.
Tutto l’episodio durò circa 5/10 minuti e mi lasciandola molto scossa e impaurita.
Nei giorni seguenti ripensava a cosa mi fosse accaduto, era preoccupata per la sua salute. Temeva che tutto il dolore che stava provando avesse compromesso le sue funzioni vitali; aveva sul viso degli sfoghi mai avuti, nemmeno durante l’adolescenza , e cominciò anche a soffrire di colon irritabile.
La sua memoria a breve termine andò in tilt, non riusciva a ricordare le cose e ogni volta che usciva di casa, OGNI SINGOLA VOLTA, dimenticava qualcosa: chiavi, telefono, portafogli, la borsa ecc..
Non aveva nessuna idea di cosa aspettarsi.
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